Le fibre di cellulosa provocano un inquinamento del mare maggore a quello delle microplastiche. È la drammatica scoperta di uno studio francese realizzato da Ifremer, Università di Bordeaux e dall’istituto pubblico di ricerca Ird, che ha appurato come la quantità di fibre di cellulosa rilevata sulla superficie dell’oceano Atlantico sia più del doppio rispetto alle microplastiche, su cui finora si è maggiormente concentrata l’attenzione pubblica e scientifica riguardo al tema dell’inquinamento del mare. Lo studio ha evidenziato anche che l’Atlantico del nord è molto più contaminato dalla plastica rispetto all’Atlantico del sud, a causa delle dinamiche delle correnti subtropicali che vi determinano una maggiore concentrazione di microplastiche.
Le misurazioni dello studio sono state effettuate da una barca da regata d’altura, quella di Fabrice Amedeo: mentre stava compiendo il giro del mondo in solitaria, il velista ha raccolto 53 campioni di acqua che sono poi stati analizzati dai ricercatori dei vari team partecipanti allo studio francese, capitanati da Catherine Dreanno (ricercatrice Ifremer), Jérôme Cachot (professore all’Università di Bordeaux), Sophie Lecomte (direttrice ricerche Cnrs) e Christophe Maes (capo dipartimento ricerche Ird).
Le prime osservazioni dei ricercatori hanno riguardato appunto l’ampia varietà di forme, dimensioni, colori e tipi di particelle tra 0,3 e 0,5 millimetri, in cui la presenza di fibre di cellulosa doppiava quella di microplastiche. «Le fibre di cellulosa sono presenti praticamente in tutti i campioni raccolti (il 92,5%), a differenza delle microplastiche, rinvenute solo nel 64% dei campioni», spiega Catherine Dreanno. «Questi risultati supportano la teoria secondo cui esiste una diffusa contaminazione dell’acqua di mare al largo da parte di particelle antropiche create dalla rottura della plastica o dal lavaggio dei vestiti». Le fibre di cellulosa che colonizzano gli oceani, peraltro, hanno una notevole presenza di additivi utilizzati dall’industria dell’abbigliamento per rendere questo materiale più colorato, resistente ed elastico: «Man mano che il materiale invecchia, questi additivi finiscono per staccarsi dalla particella e dissolversi nell’oceano o essere rilasciati nel tratto digestivo degli animali marini che le ingeriscono», aggiunge Sophie Lecomte. Finendo poi direttamente nel nostro corpo, quando ci alimentiamo di pesce.
Per quanto riguarda le microplastiche, invece, attraverso l’analisi spettroscopica è stato anche possibile confermare che tali frammenti sono prevalentemente di polietilene (PE), in particolare quello utilizzato nei sacchetti di plastica e negli involucri alimentari, e di polietilene tereftalato (PET), in particolare quello utilizzato nelle bottiglie di plastica.
Nei prossimi mesi la ricerca francese proseguirà sempre grazie al contributo del velista Fabrice Amedeo, che ha in programma di partecipare ad altre due regate, la Vendée-Artico-Les Sables (una regata tra Francia e Irlanda) e alla Route du Rhum (da Saint-Malo a Pointe-à-Pitre). Anche durante questi viaggi, l’imbarcazione di Amedeo continuerà a raccogliere campioni di acqua da analizzare per appurare il livello di inquinamento del mare.
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