di Sara Teghini
Una delle poche cose che mi mancavano degli Stati Uniti era Netflix (TV on-line, già da tempo un successo negli USA), perciò sono stata tra le prime ad abbonarmi appena il servizio è arrivato in Italia, e chiaramente adesso lo spulcio alla ricerca di film di mare e di vela, sempre troppo pochi per definizione.
Ho scovato Maidentrip, il film, o forse è meglio chiamarlo documentario, sulla storia di Laura Dekker, la ragazza olandese che nel 2012 è diventata la più giovane ad aver mai circumnavigato il globo a vela. Età alla partenza 14 anni, 16 all’arrivo. Dopo averlo guardato mi costa un po’ ammettere che Maidentrip non è affatto un film che riguarda la vela. Si svolge per la maggior parte in mare, sul ketch di 40 piedi con cui Laura ha fatto il giro del mondo, Guppy, ma non aspettatevi di vedere manovre, scene epiche di onde oceaniche o altro. Maidentrip, che si potrebbe tradurre in “Viaggio iniziatico”, parla di Laura: il mare e la lunga navigazione sono solo lo sfondo della sua crescita e del suo percorso, come giovane donna e come navigatrice.
Forse ricorderete la sua storia perchè prima della sua partenza nel 2010 i media affrontarono la questione legale che lei e la sua famiglia si trovarono a combattere: lo Stato olandese considerava la decisione di Laura scellerata e troppo rischiosa, e voleva togliere la patria potestà ai genitori. Nelle immagini di quei primi tempi Laura è davvero una ragazzina, ostenta sicurezza ma senza convincere. Ripete che veleggiare intorno al mondo è il suo sogno, ma non dice mai perchè. Alla fine del film Laura è cresciuta: le spalle più larghe, la sicurezza si vede nei suoi movimenti, senza bisogno che dica nulla, e si riconcilia con la sua scelta quando incrocia la rotta che i suoi genitori percorsero 20 anni prima. Ecco il motivo del sogno, lo stesso di tutti i ragazzini: dimostrare qualcosa ai genitori.
In mezzo, tra la partenza che mette i brividi tanto era avventata e l’arrivo a cui gli stessi media che l’avevano crocefissa fanno a gara per partecipare, ci sono 27.000 miglia di mare. Da Gibilterra alle Canarie, poi i Caraibi, Panama, le Galapagos, le Marchesi, l’Australia, e da lì la rotta meridionale: Capo di Buona Speranza, l’Atlantico del Sud e di nuovo St. Marteen. Nel documentario si vedono le immagini frammentarie (tutte riprese da Laura, nessuna copertura mediatica da grande evento) di due momenti critici della navigazione, lo stretto di Torres in Australia e l’arrivo a Città del Capo, venti violenti, passaggi complicati. Laura è nata su una barca durante il giro del mondo dei suoi genitori e ci ha vissuto fino all’età di 5 anni, navigando; a 6 anni andava in giro in Optimist e a 10 anni portava una barca di 37 piedi. La barca e il mare sono il suo ambiente naturale, la capacità di navigare è data per scontata, non è dipinta con eroismo, come uno sport estremo, non c’è nessuna fanfara. A quei momenti di navigazione tosta non è dedicato più tempo di quanto ne sia dedicato alla gioia di Laura la prima volta che riesce a fare i popcorn in barca.
Il gran finale non è tanto l’arrivo a St. Marteen, quanto la decisione di Laura di non tornare in Olanda ma di continuare. Non vuole la vita fatta di “trova un lavoro e un uomo, fai dei figli, muori”, non vuole l’Europa dove “tutti pensano solo ai soldi”. Conosce un ragazzo (che peraltro sembra davvero poco “marino”…), e insieme se ne vanno in Pacifico. Ecco la sua maturazione di donna e di navigatrice: non le interessa il record, apprezza ogni giorno di più “le lunghe navigazioni, che danno tempo per pensare“, ma anche se le piace navigare da sola, ammette che “certe cose sono più belle se le puoi condividere”. E continua imperterrita a fare quello che le piace.
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