Il Naufrago senza memoria : di Isolaria Pacifico

È l’alba di una limpida mattina d’estate. Siamo in navigazione da venticinque giorni, partiti da Bahamas e diretti in Mediterraneo dopo aver toccato Bermuda e Azzorre con un bel catamarano di sessantadue piedi, nuovo nuovo e gigantesco.

 Tss: Traffic Separation Scheme naufrago Portogallo
La zona delimitata come Tss: Traffic Separation Scheme, zona in cui le navi hanno una rotta obbligata per regolare il traffico elevato. Si trova al largo di Cabo de São Vicente, Portogallo.

Più precisamente, stiamo costeggiando il TSS (Traffic Separation Scheme, una zona in cui le navi devono tenere una rotta obbligata per regolare il traffico elevato) al largo di Cabo de São Vicente, Portogallo: meno di duecento miglia e saremo a Gibilterra.

È l’alba e sono di guardia, gli altri a bordo dormono e il mio stand-by (la persona che mi affianca nella guardia) sta crollando dopo quasi sei ore di turno di notte.

È una bella mattina, il cielo è sereno, abbiamo ventisette nodi di vento da Nord al traverso e i delfini, come al solito a quest’ora, giocano a prua.

Però oggi non vado a giocare con loro: devo fare molta attenzione al radar, all’AIS (il sistema di identificazione e localizzazione delle imbarcazioni via radio) e all’orizzonte perché siamo in un punto delicato, dove cargo e petroliere provenienti dal baltico, dalle Americhe e dall’Africa convergono nell’imbuto delle colonne d’Ercole.

naufragio atlantico senzxa memoria
Il primo contatto visivo con l’imbarcazione del naufrago. Foto credit: Maria Parga – Kaskazi Four

Passa un cargo, ne passa un altro. In questo momento conto 21 navi sullo schermo radar, nel raggio di cinque miglia. Passa un cargo al nostro fianco e lo guardo sfilare a prua. E, nella sua scia, vedo uscire dalle ombre dell’aurora una barca a vela.

Mi pare piccola. Il radar non la batte, sull’AIS non compare. Molto strano: cosa ci fa una barca fantasma in un punto di grande traffico, dove è molto difficile essere visti, e anzi quasi impossibile nel buio fino a poco fa?

Controllo col binocolo. Niente randa, solo genoa che sbatte sulle onde. Quindi, scende di poppa verso il Marocco? Attraversando tutto il TSS? Una follia.

Decido. Se orzo incrocerò il prossimo cargo tra una ventina di minuti: ho tutto il tempo di entrare nel corridoio e avvicinarmi per vedere meglio, comunicando via radio in caso di necessità.

Il binocolo mi toglie i dubbi: il genoa sbatte perché è stracciato e la barca scarroccia di lato, in balia delle onde. Il tender è sgonfio, appeso sotto la poppa.

Il Colvic Atlanta naufrago gallese
Il Colvic Atlanta del naufrago gallese a ridosso dell’imbarcazione dei soccorritori. Foto credit: Maria Parga – Kaskazi Four.

Sveglio il comandante Francesco e tutto l’equipaggio. Chiamiamo per radio. Nessuno risponde. Giù le vele, su il motore.

Arriviamo a portata di voce e di vista, cominciamo a gridare. La barca è un piccolo ketch di una trentina di piedi, vecchiotta e malconcia. Si vede una testa in cabina, su un salvagente. Non si muove. Gridiamo, gridiamo. Sarà vivo?

Ecco, si scuote, esce, ci guarda. È anziano. Ha i vestiti strappati, il salvagente che indossa è di quelli da poco, da gita in gommone.

Chiediamo «Radio? Radio?» mostrando il VHF. «No, no radio. No radio no engine no electricity» ed evidentemente no sails. Ma almeno parla, capisce.

«Do you need help? Do you want us to come on board? Do you want to come on board with us?»

Sì, sì, fa segno: venite.

Niko dice: vado io. Niko è un ingegnere motorista di ventisei anni, croato di Fiume. Parla qualsiasi lingua, pilota qualsiasi barca, ripara qualsiasi cosa e sa tutto di qualsiasi argomento al punto che lo chiamiamo Google. Ha solo due punti deboli: non resiste senza Facebook (in oceano, è dura); e non chiedetegli di cucinare se c’è onda, perché soffre il mare.

C’è onda, abbiamo detto. Calare il tender col motore sarebbe pericoloso, Niko vuole andare a nuoto. Ma abbiamo il canotto del bambino.

Bambino? ah sì certo: Aldo, il figlio di due anni del comandante. Perché, quando traversate l’Atlantico non vi portate mai i vostri bimbi? noi sì, Aldo ha fatto già una traversata e mezza. Ha imparato a camminare in barca, rolla e beccheggia ma non cade mai.

Caliamo il canotto e Niko sale a bordo con il naufrago, che gli lancia una cima. Tenta di riparare il motore per far ripartire la barca e condurla a terra, ma no: non parte. Allora ci organizziamo per trainarla. Anche perché il naufrago, un settantenne dall’accento inglese con una gamba artificiale, non vuole abbandonare la barca e sinceramente non ci pare in condizioni di trasbordare tra onde e canotto. Non si ricorda come si chiama, non sa da dove è partito, dice di essere in mare da tre settimane ma a bordo non c’è traccia di cibo e soprattutto non ha una goccia d’acqua. Dice lasciatemi qui, lasciatemi soltanto lanciare il mayday. (Ma non è possibile, siamo noi il tuo mayday!) Parla nel vuoto e crede che ci siano altre persone con lui a bordo. E questo ci preoccupa moltissimo dato che in barca non c’è nessun altro.

Passano le ore, il mare si calma un po’ e per fortuna scarrocciamo fuori dal TSS, ma a ogni buon conto lanciamo messaggi radio «pan-pan» per avvertire le navi dell’emergenza. Francesco contatta via mail col telefono satellitare e via radio il centro di soccorso portoghese.

Atlantico naufrago
Il motorsailer del naufrago ormai preso al traino. Foto credit: Maria Parga – Kaskazi Four.

E nel frattempo, una interruzione allevia la tensione e riporta il buonumore quando una balena curiosa si ferma tra le due barche a vedere cosa succede. Sbuffa e se ne va, come quei pensionati che sorvegliano i cantieri: umarell in pieno Atlantico.

Quindi, dicevamo. Come si fa ad assicurare una barca che non governa, in pieno oceano e con onda? Ecco che Francesco e Renato, comandante e secondo di grande esperienza, ci mostrano come: legano un parabordo a una cima lunga un centinaio di metri (tenerne sempre tanta a bordo: poca cima, poco marinaio!) e mentre Renato fila e recupera, fila e recupera, Francesco gira col catamarano intorno alla barca in modo da stringere una spirale che porti la cima a portata di Niko.

Una cima a prua della barca, due cime a Y a poppa del catamarano per equilibrare le forze, e si parte. Lanciamo ancora un avviso via radio: «securité securité securité», stiamo per attraversare il corridoio di traffico delle navi diretti al porto più vicino dove ci verranno incontro i soccorritori portoghesi: Portimao, rotta per 40°.

Il nostro naufrago ha tutte le fortune: a bordo con noi c’è anche Ricardo, un infermiere spagnolo che si preoccupa di preparare un bottiglione di acqua zucchero e sali da mandargli (e si preoccupa anche di chiedere se l’uomo sia diabetico. No, dice: solo cardiopatico. Ah, perfetto). Se vi capita, portatevi a bordo del relitto una borsa stagna con Vhf, medicinali, materiali per pronto soccorso, cibo, acqua, torce e qualcosa per asciugare e coprire voi stessi e il naufrago. Noi nella concitazione qualcosa ci eravamo dimenticati, e così mandiamo le provviste (e una birra per Niko) legando una borsa galleggiante alla cima.

Trainiamo la barca per tredici ore: con vento e con onda al traverso il piccolo vecchio ketch senza vele sbanda e sbatte come un turacciolo. Restiamo sempre in contatto radio con Niko (che, vi ricordo, soffre il mare) e non lo perdiamo di vista un istante. Verso sera ci fermiamo e ripetiamo l’operazione canotto per mandare a bordo Renato, che si porta persino le luci di via, a pile. Yacht Master da manuale.

Al telefono satellitare ci contatta anche un medico e la capitaneria portoghese ci dà istruzioni via radio.

Sono circa le ventitré quando, ormai in vista di Portimao, ci raggiunge il gommone dei soccorritori. Il medico è a bordo, ma anche lui soffre il mare! Vomita e non riesce a visitare il naufrago. Lo traineremo fino in porto.

Avremmo voluto accompagnarlo in ospedale, salutarlo con affetto, magari stappare una bottiglia di vino alla sua salute. Ma quando ci è passato davanti verso l’ambulanza, su una sedia a rotelle e legato perché non cadesse, non ha dato segno di vederci.

La barca resta ormeggiata, sola e sconvolta, dietro la nostra. Cerco su internet. È un Colvic Atlanta, un piccolo motor sailer di 9,45 metri, del 1980. È bellissima. Almeno, a noi sembra bellissima, nello stato in cui è. È piena, strapiena di roba. Taniche di carburante, vestiti, cuscini. Forse l’uomo viveva qui. Ma allora, perché non c’è cibo? Forse pranzava e cenava altrove.

Le draglie di dritta sono rotte, una cima pende fuoribordo a sinistra, la drizza del fiocco strappato è stata tagliata da Niko per poterlo ammainare e la vela giace ammucchiata a prua.

Il tender è ormai un sacco sgonfio a poppa. I vestiti stracciati del naufrago riempiono la cabina: ha voluto cambiarsi, reggendosi malamente, per l’arrivo dei medici e dei poliziotti. Le sue scarpe sono ordinatamente appoggiate in pozzetto.

Dai documenti, la barca risulta intestata a un pensionato gallese, di stanza a Gibilterra. Era lui, non era lui? Era solo o era con qualcuno? Da quanto tempo era in mare senz’acqua, e perché era in quello stato? Si era perduto? O la sua mente si era già persa prima di salpare?

A noi e ai soccorritori ha raccontato di essere in fuga per storie di gangster e di omicidi. Vere o sognate? Conseguenza di deriva e disidratazione, o causa?

Non lo sappiamo, per ora, e aspettiamo sue notizie. Di sicuro sappiamo cosa sarebbe accaduto se non l’avessimo visto.

Recuperiamo le nostre cose e ripartiamo la mattina dopo. Ci pare di lasciare qui, ormeggiato e ricoverato a Portimao, un pezzo di famiglia. Abbiamo lasciato a bordo un gadget che ci piaceva molto ed era piaciuto molto anche al naufrago, consolandolo un po’: una lucetta galleggiante, che lancia lampeggiando un segnale in alfabeto Morse:

. . . – – – . . .

S.O.S.

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