La vela è uno sport pericoloso? Sì, secondo una ricerca Usa

Se credevate che la vela fosse un’attività priva di rischi per la salute, dopo lo studio realizzato da un gruppo di scienziati del Rhode Island Hospital, di Providence (Usa) forse si farebbe bene a cambiare idea.

La vela sarebbe più pericolosa, e persino più mortale, dello sci e dello snowboard messi assieme e molto più letale del football americano. Il paragone con questo sport tipicamente yankee non è casuale, vista l’origine dello studio, tuttavia colpisce che un gioco così manifestamente violento e di contatto come il football sia in realtà molto meno pericoloso di quanto lo sia andare per mare a vela.

Solo nel 28% delle morti in mare avvenute a velisti statunitensi, la causa primaria è il cattivo tempo.

Se si analizzano i numeri, la ricerca basata sui dati forniti dalla Guardia Costiera Usa per gli incidenti occorsi durante la pratica della vela dal 2000-2011, si vede che i 4.180 eventi censiti hanno causato 271 morti e 841 feriti su una popolazione di velisti composta da circa 8 milioni di persone attive ogni anno.

Tradotto in altri termini: il tasso di mortalità giornaliero della vela statunitense è di 1,19 morti per milioni di persone praticanti. Il medesimo indicatore per sciatori e snowborder è di 1,06 morti per milioni di praticanti giorno. Mentre, in valori assoluti, in questa dozzina d’anni, sono “soltanto” 197 i decessi avvenuti ai giocatori con la palla ovale in gara o in allenamento.

Se non c’è né la velocità che si raggiunge con gli sci, né le escursioni fuori pista con il conseguente rischio di slavine, né le funamboliche evoluzione degli snowborder su gobbe e half-pipe, né gli impatti violenti contro gli avversari durante il gioco del football, allora che cosa è a far morire i velisti?

La risposta è la più scontata: l’acqua. Finire fuoribordo è la prima causa del decesso: nel 70% dei casi l’affogamento è il grande mietitore di vittime soprattutto perché l’82% degli scomparsi non indossava il giubbotto salvagente. Solo successivamente, nel 28% dei casi, troviamo le condizioni meteo avverse come causa primaria di decessi.

Il cippo funerario dedicato ai 15 velisti scomparsi durante la Fastnet race del 1979.

Altro peso considerevole, sempre parlando del mondo dei velisti stelle e strisce, lo ha il consumo di alcool: ad esso è imputato il 12% delle morti. Infine troviamo un comportamento distratto o non adeguato. Non a caso un adagio dei navigatori sostiene: su dieci corpi recuperati in mare, nove hanno la patta aperta. Tradotto: quando si è troppo rilassati, quando non si lavora con concentrazione, è più facile rimanere vittima di incidenti, anche gravi. Insomma, se si adottasse un comportamento responsabile si eviterebbero 53 morti su 100, che non è affar da poco.

Per quanto riguarda i feriti, c’è una certa differenza tra chi va in deriva e chi esce con un cabinato. Il 52% delle lesioni su barche non motorizzate è dovuto alle scuffie, mentre su barche motorizzate la parte del leone, nel 46% degli accidenti, è dovuto a collisioni o a incagli. Non c’è nessuno escluso da questa statistica, che siano velisti alle prime armi o navigatori di lungo corso: Eric Tabarly è morto affogato dopo essere caduto in acqua nel Mare d’Irlanda durante una presa di terzaroli in trasferimento con il suo Pen Duick del 1989 verso un raduno per i cento anni di vita dei cantieri William Fife in Scozia.

Giacomo Giulietti

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