Vivere in barca è il sogno che tutti quelli che vanno per mare hanno fatto almeno una volta nella vita. L’idea (o meglio, l’ideale) è quello di una vita semplice, essenziale, lenta, lontana dallo stress, dal traffico, dai parcheggi, dagli impegni, in una parola dalla frenesia della vita di città.

Non sono certo qui a scrivere di come lo si può realizzare, questo sogno. E’ un argomento complesso e delicato: figli, famiglie, budget, rotte, sicurezza, gli argomenti da trattare sarebbero moltissimi. Quello che posso raccontarvi, però, è dei tanti e svariati personaggi che incontro in giro per i mari e per i porti che in barca ci vivono, in diversi modi. Le tipologie sono le più disparate, e per divertimento, in questa tranquilla giornata in porto, mi metto a descriverle.

Il modo più immediato di suddividere queste tipologie sarebbe quello della presunta disponibilità economica dei soggetti in questione, che non è difficilissimo dedurre guardando le attrezzature delle barche, i marina in cui scelgono di sostare e il grado di frequentazione dei ristoranti. Ma è un cliché molto italiano: nella maggior parte dei paesi del mondo, per fortuna, l’equazione barca = soldi è desueta se non sconosciuta. Proviamo a guardare questo popolo del mare secondo il modo in cui vive la propria barca.

La villettala barca, che sia a vela o a motore, è la trasposizione galleggiante della casa al mare o lungo il vialetto alberato di un quartiere residenziale. Cime da ormeggio perfettamente pulite, passerelle idrauliche con telecomando, tv, aria condizionata e spesso lavatrice a bordo. Di rado li vedo mollare gli ormeggi per fare un giro in mare. Sono per lo più nordici in pensione, vivono preferibilmente nei marina del Sud d’Europa dove il clima è mite tutto l’anno e spesso hanno un cane (molto educato) a bordo.

Il campeggiola barca, decisamente a vela, è meglio della casa perchè si sposta. E si sposta usando il vento, che, almeno per ora, è gratis. Le cime sono un po’ consunte, le vele avrebbero bisogno di un’aggiustata, nei gavoni c’è materiale equivalente alla merce di due ferramenta per essere pronti a qualsiasi eventuale riparazione. Spesso sono francesi, ma le nazionalità per questa categoria hanno pochissimo senso. Di solito cominciano a navigare verso Ovest, giurano che staranno via un paio d’anni al massimo, ma non è difficile ritrovarli in qualche isola del Pacifico dopo dieci anni. Spesso hanno dei figli, che già a cinque anni parlano tre lingue e camminano in equilibrio sulle draglie.

L’albergo – la barca è non solo la casa, ma anche il lavoro. E’ una categoria molto ampia, questa: chi fa sempre le stesse brevi rotte, chi cambia ogni anno, chi resta in Mediterraneo, chi sceglie i Caraibi o la Polinesia. La barca è a vela, per loro, non si discute. Al massimo si può parlare di un catamarano, ma con cautela, dipende da chi si ha di fronte. Sono caratterizzati da una visione quasi umana della propria imbarcazione, che assorbe tutte le loro cure e il loro tempo. Spesso sono in due, comandante e hostess, con una suddivisione dei ruoli netta e indiscutibile che garantisce la pace a bordo.

Non categorizzabili –  la barca, o qualsiasi mezzo galleggiante abbiano adattato per viverci sopra, è il mezzo per realizzare la propria fantasia. Come quello della famiglia canadese che vive sul giardino galleggiante della foto, pieno delle sculture che realizzano e vendono. Come quello dei catamarani ispirati alle imbarcazioni polinesiane, autocostruiti da una variegata comunità che vive in ogni angolo del mondo. O come quello di chi attrezza una qualsiasi barca tra le tante che si trovano semi-abbandonate nei porti e gira per gli oceani raccontandone le storie e la bellezza.

 

Sara Teghini


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