1.500 miglia di Atlantico senza timone

È una storia di qualche anno fa, ma è appena stata pubblicata dagli amici di Yachtingworld: forse i protagonisti ci hanno messo più del previsto a riprendersi dall’accaduto e a raccontarla… E in effetti non è una cosa simpatica quella che è successa nel 2011 a Patrick e Amanda Marshall, una coppia di navigatori che come tanti ha preso il mare da Capo Verde diretta ai Caraibi sulla propria barca, Egret, uno Sweden Yachts 390. E loro sono stati bravissimi…

La quarta notte di navigazione, a 1.500 miglia da Barbados, la barca perde il timone: un rumore metallico prima, un forte sbandamento poi e infine l’impossibilità di riprendere il controllo della barca non lasciano adito a dubbi. Probabilmente a causa di un urto con un corpo semigalleggiante (un temuto container o altro), Egret ha perso gran parte della pala del timone, e la coppia si è ritrovata quasi letteralmente in mezzo al mare a gestire la situazione.

Non erano proprio soli, però. Il primo, primissimo ringraziamento dei due naviganti va, nel loro articolo, alla ruota dei naviganti in radio, che li hanno assistiti moralmente e praticamente (e lo dico sempre anche io, non saranno mai sufficientemente ringraziati, i radioamatori). Le barche collegate via SSB si sono attivate per portare rifornimenti e assistenza a Egret, e chi era in ascolto da terra ha assistito la coppia nella scelta della rotta migliore per evitare troppo vento e troppo mare, e nella realizzazione di un’áncora galleggiante che rendesse manovrabile la barca.


La figura pubblicata nell’articolo originale mostra come le istruzioni teoriche impartite da casa sono state applicate da Patrick e Amanda utilizzando quello che era disponibile in barca per costruire l’áncora galleggiante. Otto metri di cima fissata alle gallocce di poppa a dritta e a sinistra, seguita da altri 12 metri di cima, 4 di catena, un’áncora Bruce con un parabordo attaccato, poi ancora 8 metri di cima con due parabordi, 4 metri di catena e un parabordo finale, per un totale di 32 metri. Due cime fissate al primo anello della catena, passate in uno stopper, fissate a mezza barca e riportate in pozzetto sui winch hanno permesso alla coppia di “timonare”: se aggiustate aiutavano a mantenere una rotta più o meno stabile, se cazzate ben bene di virare e strambare.

Una volta costruita l’áncora restavano due problemi da affrontare: trovare il miglior assetto di vele per far navigare la barca con vento in poppa, correggendo la tendenza orziera, e trovare il punto migliore per l’atterraggio – un conto è navigare a zig zag in mezzo al nulla, un conto è avere coste e rocce a meno di 10 miglia di distanza.

La questione dell’assetto velico Patrick e Amanda l’hanno risolta da soli, forti dell’esperienza fatta nei primi giorni di navigazione che gli aveva insegnato quale reazione aveva la barca ai diversi tipi di velatura. La vela di straglio (fiocco o trinchetta a seconda della forza del vento) e un po’ di genoa tangonato sopravento si è rivelato l’assetto migliore per la situazione: solo con il fiocco Egret riusciva a tenere il traverso, mentre con l’aggiunta del genoa sopravento teneva un angolo di 120°.

La barca, raccontano Patrick e Amanda, si è comportata bene: il pilota automatico faceva molta fatica, ma alla fine riusciva a tenere la rotta con l’opzione “gain” impostata al massimo. Il sistema era in qualche modo autocompensante: con poco vento i parabordi galleggiavano in superficie e opponevano poca resistenza, quando il vento aumentave a la barca prendeva velocità si immergevano rallentando la corsa. Egret faceva 90 miglia al giorno, nonostante tutto.

Per il secondo problema, l’atterraggio, ancora una volta i due naviganti ringraziano i radioamatori, che non solo hanno individuato il marina adatto all’atterraggio (Rodney Bay a Santa Lucia), ma hanno anche fatto trovare alla coppia al loro arrivo una barca per rimorchiarli, pane e frutta fresca, e i disegni del timone inviati dalla Sweden Yachts per le riparazioni.

Sara Teghini

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