Metti insieme un gruppo di velisti e farli parlare cime, nodi, legature e impiombature. Fermarli sarà difficile. Le “corde”, nella loro declinazione marina sono incredibilmente “sexy”, incuriosiscono, affascinano. Ancora di più quando a intrattenerti è qualcuno che ne sa veramente tanto, come Stefano Finco. La sua azienda, Armare, arriva da una famiglia che da sempre si occupa di cordami e di nautica, che ha iniziato con la canapa e che ora fornisce Team New Zealand, ma anche l’industria aerospaziale per applicazioni d’avanguardia. Lo abbiamo incontrato durante il Mets, e quella che doveva essere una breve chiacchierata si è trasformata in un bel viaggio alla scoperta del “cordame” nautico.
“Armare com’è ora è la continuazione di una lunga tradizione di famigliare dai tempi del mio bisnonno. Si parla ancora dell’epoca delle fibre naturali. Loro coltivavano canapa, nella zona di Padova, e da li passavano direttamente alla produzione del cordame. Mio nonno e mio fratello poi si sono spostati a San Giorgio di Nogaro nei primi del novecento, dove è tuttora la nostra sede. Gli antichi strumenti per la lavorazione del cordame in canapa, oggetti con più di 150 anni di storia, li abbiamo raccolti in un museo tematico. La produzione della canapa era molto più diffusa in passato. La parte più pregiata della produzione di mio nonno veniva destinata non al cordame, ma ai tessuti”.
E’ un argomento molto affascinante, sentir parlare di cime e cordami e della loro storia è sempre molto bello e incuriosisce un po’ tutti. Ma voi ora siete anche espressione di quanto di meglio ci sia in termini di ricerca. Le cime in canapa non si usano più da un bel po’ di tempo…
“Certo, non viene più usata dagli anni ’40/’50, poi sono arrivate le materie sintetiche. Anche se può sembrare strano, credo che la nostra forza, nel tempo, sia stata quella di non essere mai diventati troppo grandi. Nel mondo ci sono i pochi “giganti” della produzione di cime e cordami, realtà da 6/700 dipendenti. Noi, per rendersi conto della differenza, ne abbiamo venti, e questo ci ha permesso di avere una grande “agilità”, di lavorare su customizzazione e personalizzazione. Nel mezzo tra noi “piccoli” e loro “grandi”, per ora, non c’è molto. Questa flessibilità ci ha consentito di superare senza problemi la crisi che ha travolto un po’ tutto il mondo della nautica”.
Anzi, se non sbaglio, voi da allora siete cresciuti. E anche parecchio.
“Avevo, per fortuna, capito che quella sarebbe stata la strada giusta. Allora di dipendenti ne avevamo dodici. Ma ogni anno ne aggiungiamo qualcuno. E abbiamo aperto una base operativa anche a Lavagna”.
In che direzione è andato, negli ultimi anni, questo processo di “personalizzazione” della produzione?
“Da un lato siamo risusciti a rispondere in maniera sempre più puntuale alle richieste dei vari produttori di barche e dei vari team, dall’altro siamo stati capaci di differenziare la nostra produzione e di guardare anche fuori dal solo mondo nautico”.
Per esempio?
“Si parla dei settori più disparati, dall’industria aerospaziale agli ascensori. Pensate a questi ultimi: devono servire palazzi di cento piani, e utilizzare bobine pesantissime in acciaio. Ora usano “corde“.
Quanto conta l’extrasettore rispetto alla nautica, all’interno della vostra produzione? E, in assoluto, che peso hanno mercato estero ed italiano?
“Tra nautico e non-nautico siamo circa al 50%, un rapporto molto bilanciato. Valori molto simili per quanto riguarda le esportazioni: circa 60% estero, 40% Italia”.
Torniamo alle barche. Il mondo delle regate, ai loro livelli più alti, è molto stimolante per voi.
“Certo. Piano piano, con la nostra umiltà siamo riusciti a diventare anche fornitori di team New Zealand per la prossima Coppa America. E sono venuti loro a cercarci. Va poi anche sottolineato che è un settore molto competitivo, difficile da penetrare. Ci sono marchi affermati che creano rapidamente delle barriere. Noi comunque forniamo barche importanti e grandi team.”
Quanto conta saper investire in ricerca e sviluppo?
“Moltissimo. Abbiamo un nostro dipartimento che ovviamente fa solo questo. La parte più difficile è interfacciare le cime Armare con il resto della barca, con l’attrezzatura di coperta, soprattutto quando si ha a che fare con barche di un certo livello, perché “tirate” o perché molto grandi. Bisogna sapersi coordinare con i “riggers”. Recentemente abbiamo attrezzato anche i 47 metri di Perini, Sybaris. Una bella sfida.”
Cosa possiamo aspettarci per il futuro, in questo campo, per i diportisti “normali”.
“Anche lì si va nella direzione di prodotti sempre più performanti. Andranno scomparendo i tradizionali poliestere a doppia calza, il classico “prestirato”. Ormai anche le barche da crociera di serie hanno subito una grande trasformazione, escono dai cantieri con delle cime in Dynema, con delle calze un po’ più sofisticate, con qualità di grip e resistenza all’abrasione molto più alte. Anche le cime di ormeggio diventano sempre più tecnologiche, più leggere, ma anche più resistenti. E poi gli stessi accessori di coperta: golfari, bozzelli, paranchi, un po’ tutto prevede sempre più l’uso del tessile al posto del metallo. E’ un’evoluzione che comprende la barca nel suo insieme”.
Già, e ci sarebbe poi da parlare anche del sartiame…
“Certo, noi per ora lo proponiamo in PBO, ci stiamo spostando anche sul carbonio. E comunque ormai il mercato si fida. E va ricordato che il tessile, a parità di allungamento, garantisce la resistenza a carichi quasi doppi. Quindi, rispetto al tondino, non solo si avrà più leggerezza – che in regata conta moltissimo – ma anche più sicurezza. Questo tenendo conto, inoltre, che i prezzi non sono più quelli di una volta“.
Stanno cambiando anche le vele, sempre più rigide e sempre “in forma”. Anche loro con un maggiore impiego più fibre esotiche.
“Certo, sarebbe assurdo utilizzare prodotti così prestazionali, modellati alla perfezione, se poi ad ogni raffica l’albero si muove. Quello che mi affascina in questo settore e che c’è un incredibile ricerca che non si ferma mai, ogni fibra ha il suo punto debole e si rincorre il “prodotto perfetto”. Per esempio il PBO resiste alle alte temperature, ma soffre la luce. Il Dynema, all’opposto, resiste a luce e abrasioni, ma a 12o° fonde. Ogni prodotto ha il suo punto debole“.
Volendo concludere con una domanda “immaginifica”, come sarà secondo lei la cima del futuro? Sarà proprio quella perfetta, all-round, senza punti deboli?
“Chissà, forse si, tanta ricerca porterà in quella direzione. Ma perché non immaginarsi anche una corda che non è una corda? Qualcosa che ancora non esiste – ma in realtà si stanno facendo esperimenti in questa direzione – un estruso, un “solido” al posto del tessile?”