Se qualche anno fa l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) ha sentito che era giunto il momento di stilare e rendere obbligatorio (dal 2017) un codice per le imbarcazioni che navigano nelle zone polari, significa che comincia a esserci traffico anche in quelle parte remota del mondo.

Traffico commerciale, pescherecci, navi alla ricerca di giacimenti di risorse, postali e traghetti, ma anche, sempre di più, charter. Evidentemente la ricerca di un tratto di mare deserto e la voglia di avventura sono talmente forti da spingere sempre più persone ad affrontare condizioni estreme (in questo caso lo si può dire senza esagerare), e le offerte non mancano. A vela, a motore, con vecchi lupi di mare o con spedizioni scientifiche si possono ormai navigare tratti di mare di cui basta pronunciare il nome per sentire un brivido: Capo Horn, Stretto di Drake, Canale di Beagle, Georgia del Sud, Alaska, passaggio a Nord Ovest.

Per il momento, se volete provare l’ebrezza di navigare nei 40 ruggenti e perfino nei 50 urlanti, dovete affidarvi alle capacità degli skipper che vivono a quelle latitudini, sono esperti dei venti e delle condizioni meteo, e hanno attrezzato al meglio le loro barche per affrontarli. Il mercato però si sta muovendo, e diversi cantieri stanno producendo imbarcazioni pensate appositamente per le navigazioni polari. Le nuove barche incorporano già le indicazioni dell’IMO in termini di sicurezza, protezione ambientale, eventualità di ricerche e salvataggio. I cantieri olandesi Damen ne hanno presentata una di recente al salone di Monaco, la SeaXplorer, con tanto di carena rompighiaccio, spazio per due elicotteri e fino a 40 giorni di autonomia completa.

Le nuove imbarcazioni possono sfidare le condizioni più impegnative, assicurano i cantieri. E guardando i favolosi rendering di questi megayacht ancorati in mezzo ai ghiacci non può non venire alla mente la storia di chi le condizioni più impegnative le sfidò con barche di legno, nessuna tecnologia e 27 uomini da salvare. Se non conoscete la storia di Sir Ernest Shackleton dovete rimediare quanto prima. Fortunatamente sono rimasti diari, addirittura fotografie e l’ammirazione di numerosi appassionati che hanno raccolto il materiale e scritto diversi libri raccontando l’avventura dell’Endurance, ultimo, incredibile atto dell’epoca eroica delle spedizioni antartiche.

Che scegliate i diari scritti dal comandante Shackleton in prima persona, quelli degli altri membri della spedizione o uno dei numerosi libri scritti da altri autori, la storia dell’Endurance e del suo equipaggio vi lascerà a bocca aperta: la nave, partita dal Regno Unito nell’agosto del 1914,  fu stretta nella morsa della banchisa polare poco dopo essersi addentrata nel pack e, nel giro di qualche mese, letteralmente stritolata. Gli uomini, accampati con pochi mezzi su un blocco di ghiaccio, un po’ sfruttando le correnti, un po’ camminando in condizioni disumane, e infine navigando con temperature spesso inferiori ai 20 gradi sotto zero, raggiunsero l’isola di Elephant, piccola e inospitale, sul limitare della banchisa polare.

Da lí un gruppo scelto partí su una delle scialuppe salvate dall’Endurance e trascinate faticosamente per il pack: una barca di 6 metri, di legno, zavorrata con sacchi di sabbia. La destinazione era la Georgia del Sud, che ospitava una stazione di balenieri e, in teoria, la salvezza: 800 miglia di mare con medie di venti superiori ai 30 nodi e onde di oltre 7 metri. Il tutto, ovviamente, avvalendosi solo di un sestante e di un cronometro per fare il punto nave. Ancora oggi questa resta una delle traversate più temerarie e strabilianti mai tentate.

Per scoprire il finale dovete leggere uno dei libri dedicati a questa incredibile avventura, ma avete già  abbastanza elementi per immaginarvi la faccia che farebbe Shackleton se vedesse i rendering della SeaXplorer.

 

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