Partendo dal fatto che la pesca, come si direbbe in fisica, è un sistema dinamico e in continua evoluzione, a volte ci si trova davanti a situazioni e luoghi in cui è d’obbligo uscire dagli schemi e dai canoni classici se si vuole avere la meglio su prede di grande pregio e taglia.
In questo caso, sto parlando dell’inchiku, tecnica di origine nipponica che viene generalmente classificata all’interno del gruppo di quelle discipline definite light jigging ma che, come vedremo, se ben adattata ai nostri bisogni, e se mirata alla cattura delle più grandi e potenti prede che possiamo cercare in Mediterraneo, in realtà di light non ha più molto ma, piuttosto, deve essere ben concepita per tener fronte a combattimenti che spesso vengono portati, per forza di cose, a limiti estremi.
In molte aree del Mediterraneo gli artificiali da inchiku sono spesso micidiali non solo per pesci di piccole e medie dimensioni, ma per cernie di ogni tipo e taglia, grossi corazzieri, pagri, dentici, fino ad arrivare alle grandi ricciole e non sono rari attacchi su queste esche anche da parte di tonni rossi.
Si è parlato spesso dell’assuefazione da esca che in molti luoghi del mare nostrum ha caratterizzato il vertical jigging che, anche se negli ultimi anni sta tornando a dare dei grandi risultati, in molte aree, per lunghi periodi e in numerosi spot, è stato improduttivo. Incredibilmente, lo stesso non è avvenuto per l’inchiku (o comunque è avvenuto in maniera del tutto ridotta rispetto al vertical jigging).
Personalmente mi sono chiesto decine di volte perché in molte circostanze c’è questa differenza di rendimento tra il vertical jigging classico e l’inchiku e, come credo molti di voi, non ho saputo trovare una risposta certa ma, invece, fare solo qualche ipotesi plausibile.
Forse un metal jig punta maggiormente la sua efficacia sull’effetto sorpresa, provocando il pesce per territorialità, o accendendo i suoi istinti predatori con particolari movimenti?
Questo può funzionare sia quando il predatore è in fenesia alimentare come quando è in fasi di stasi, ma tali caratteristiche perdono efficace non appena il “giochino” viene ripetuto troppe volte. Ma allora, perché non vale lo stesso discorso per alcune esche da inchiku?
Ho notato, infatti, che quattro pesci dei circa dieci allamati, una volta in barca, avevano rigurgitato diversi polpi e moscardini (tra questi una grossa cernia bruna ha rigurgitato un polpo di oltre un chilo).
Da qui è nata la domanda: ma non sarà forse l’octupus, così mobile e fluttuante vicino alla parte metallica, il vero valore aggiunto che fa la differenza rispetto ai metal jig?
E’ ovvio che è molto importante anche la parte metallica dell’inchiku, il suo movimento e come questa viene animata (non a caso alcuni modelli in Mediterraneo sono molto più efficaci di altri) però sta di fatto che l’octupus è una parte fondamentale dell’esca che nel suo insieme, forse, ricorda al pesce alcuni dei molti cefalopodi di cui si nutre e quindi, oltre a tutte le caratteristiche valide di un metal jig, l’inchiku a volte induce l’attacco nel predatore poiché gli ricorda alcune delle sue prede tipiche.
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