Confesso. A me piacciono le sale d’attesa. Gli aeroporti, i treni. I corridoi degli uffici pubblici. Gli atri delle stazioni. I luoghi anarchici e non identitari, non caratterizzati, sradicati: quelli che gli antropologi definiscono non-luoghi.
Mi piacciono perché mi piacciono le persone. Mi piace guardare la gente fuori contesto e senza pregiudizi, cercare di vederla come è, o spera di essere, senza necessariamente entrare in relazione.
Non sopporto invece i falsi-luoghi, quei posti la cui identità è imposta, studiata e calcolata: i centri commerciali, gli alberghi all-inclusive, gli shopping village, le catene in franchising, i localini shabby chic, i bed and breakfast finto rustico, i viaggi a tema, i fashion district, i festival, le design week, i social network.
Mi piacciono i panorami ampli, mi piace stare in cima alle montagne, in riva al mare, nel deserto. Mi piacciono i luoghi non plasmati dall’uomo. Mi piace navigare per giorni e giorni in mare aperto.
Me lo chiedono spesso, all’ammazzacaffè in pizzeria o in dinette nel giorni di bonaccia. Com’è stare settimane in alto mare? Bello, eh? Faticoso, eh? Bello ma faticoso, eh?
La risposta è «sì, certo», oppure la risposta è «beh, dipende». La risposta che non do mai per non sembrare snob è: «normale». Stare in mezzo al mare è normale.
Ecco, adesso sembro snob. Però a me è capitato proprio così, fin dalla prima volta.
Sono arrivata alla mia prima traversata oceanica nervosissima per mille ragioni diverse, e nessuna di natura marinara.
Portavo con me un lutto recente, varie battaglie professionali e diverse delusioni personali. Ferite fresche.
Preparativi convulsi, viaggi aerei e burocrazie. Stress. E chi non ne ha.
Del resto io non avevo mai sognato l’oceano. Non leggo libri di storie di mare (a parte i classici, ma quelli appunto in quanto classici), non compro riviste di vela, non faccio la velista su Facebook.
Insomma andavo in barca, navigavo ma non sognavo di navigare. Poi un giorno incrocio il Vitto Malingri, al cui intuito non sarò mai abbastanza grata perché dopo tre battute mi dice: tu sei pronta per l’oceano. Obbedisco. E quando finalmente salpiamo ecco che improvvisamente sono a casa.
Navigare, stare in mezzo al mare è normale. Cosa si fa. Niente. Si fa andare la barca ma se siete abituati alle regate o alle crociere c’è molto meno da fare.
Poche virate, poche strambate, pochissimi cambi di vela, giusto regolazione e messa a punto. Nessun ormeggio, nessun ancoraggio per mia fortuna.
Si fa molta attenzione al meteo. Si prepara bene la rotta, per sfruttare il vento buono evitando le perturbazioni e i groppi cattivi. Ci si aggiorna periodicamente, ormai via satellite si può avere comodamente un minimo traffico dati.
Si fa rigorosamente a ogni fine turno il punto nave e si aggiorna il diario di bordo.
Si controlla lo stato della barca, il traffico e gli oggetti galleggianti sia a vista sia su radar o AIS. Fondamentale è guardare sempre intorno. E la bussola, la vecchia cara santa bussola. Poi ci sono i lavori manuali, la manutenzione continua. Ogni cosa deve essere sempre perfettamente efficiente: la sicurezza innanzitutto.
Poi c’è chi cucina, chi pesca, chi ascolta musica, chi legge, chi chiacchiera, chi prega, chi fa yoga, chi cerca di non litigare con l’insopportabile del gruppo. Ogni tanto qualche storia d’amore.
Io quando sono di turno spengo la musica (questo mi rende insopportabile, lo so) e – se sono abbastanza lucida malgrado i ritmi innaturali di sonno – prendo il timone perché voglio sentire i rumori e i movimenti della barca.
Qualsiasi sensazione irregolare va verificata e bisogna fidarsi anche delle minime percezioni.
Se con la coda dell’occhio ti è parso di vedere una balena, mi ha insegnato Francesco Rinauro con cui ho fatto una traversata memorabile, molto probabilmente lì c’è una balena.
Parlo ovviamente delle situazioni in cui tutto fila liscio, alle emergenze e alle tragedie non voglio nemmeno accennare qui: ne abbiamo viste pure troppe, ultimamente.
Ma anche quando tutto va come deve, è normale, il mare fa paura. Fa paura, se ci pensi, avere tutta quell’acqua sotto e tutta quell’acqua intorno e tutto quel cielo immenso e stellato talvolta, talvolta gonfio e cupo.
Fa paura pensare che se succede qualsiasi cosa a bordo, anche un banale incidente domestico, il primo soccorso è a migliaia di miglia. Fa paura non avere vie d’uscita, vedi arrivare il fronte e sai che ti prenderà.
Fa paura la notte, non vedere cosa c’è davanti. Fa paura essere soli con la propria mente e col proprio corpo, sentire la propria coscienza che lavora, ascoltare i segnali fisiologici, cercare di non guardarsi indietro.
Fa paura essere costretti a riconsiderare le proprie certezze sociali, annullate proprio come in ogni non-luogo.
Spegnere i pensieri, cancellare le abitudini, smontare gli automatismi, assumere nuovi schemi.
Questo accade sia quando si naviga con altri, ognuno immerso nel suo gioco di decostruzione e ricostruzione dell’ego, sia e forse ancor di più quando si è da soli, senza confronti se non con la propria mente.
Al momento in cui scrivo, già quattro partecipanti si sono ritirati dalla Golden Globe Race, la regata più lenta dell’anno, il giro del mondo in solitario con barche anacronistiche per regolamento.
Tutti e quattro i ritirati hanno addotto la stessa motivazione: la solitudine. La decisione è stata giudicata saggia dagli organizzatori, che paventano la sindrome di Donald Crowhurst, il velista che impazzì e finì per gettarsi a mare durante la prima edizione, quella storica del 1968, di questa regata. Non erano preparati.
Anche alla solitudine bisogna allenarsi, e non va sottovalutata. E anche all’identità: la vita collettiva può dare assuefazione.
Ho conosciuto uno che vorrebbe fare la Mini Transat per disintossicarsi da Facebook. Dice che invece che continuare a flirtare dal telefono, farà venti giorni di traversata in solitario e senza internet e poi si sposerà la prima che trova in banchina.
La fa facile. Buon vento, comunque, e in culo alla balena.
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Belle parole di mare comprerò un tuo libro se lo troverò per immergermi nella solitudine dell'oceano e la voce del vento