Lucio Micheletti è apparso nella nautica poco meno di sette anni fa. Con il suo tono di voce pacato e i suoi disegni inaspettati ha portato la sua visione del mondo nella progettazione di interni e nello styling degli yacht. “Quando si aggiunge un elemento alla forma, bisogna saper togliere al colore e viceversa: ottenere la semplicità è il segreto, ma anche la fatica più grande”, spiega.
Il gioco delle complementarietà è alla base del processo creativo. Nella sua visione, la luce ha bisogno della trasparenza, il colore ha bisogno della luce e la materia dà a entrambi la capacità espressiva. “Il colore sbagliato può opacizzare il valore di un prodotto, così come un colore adeguato può enfatizzarlo, ma il requisito essenziale è sempre la forma. E, normalmente, una bella forma non ha bisogno del colore”.
Insomma un sistema semplice, quello che persegue Micheletti nella sua progettazione. Un sistema che si basa su bellezza e funzionalità. Due principi su cui ha costruito il suo lavoro, indipendentemente dalla destinazione che sia nell’automotive, nell’edilizia abitativa o nell’architettura di hotel, di musei o di teatri, tutte esperienze che il 54enne architetto milanese ha in curriculum, compresa una ricca produzione artistica che va dalle installazioni urbane alle sculture.
Che il suo approccio sia differente si vede proprio dalla carta. Per lui la progettazione con gli ausili informatici viene solo in un secondo momento, dopo che tutta la barca e i suoi particolari hanno preso forma disegnati a mano, come si faceva prima.
Di recente, con all’attivo sei progetti per Solaris, il Vismara-Mills 56 e qualche altra operazione ancora non rivelabile, è stato chiamato dalla Baltic Yachts per disegnare gli interni e la coperta del nuovo Baltic 142. Lo abbiamo incontrato per conoscere più da vicino il Micheletti pensiero.
Architetto, lei ha progettato gli interni e la coperta di yacht da 45 a 140′ passando per i 70. Che cosa cambia con il cambiare delle dimensioni, a cosa si fa più attenzione a seconda di quanto è grande una barca?
Io non parlerei di dimensioni, ma di filosofia di spazi e volumi. Una barca a vela di ultima generazione dovrebbe essere un volume di pura tecnologia: l’attore principale. Ciò assodato, quello che cambia nel progettare barche piccole o grandi è l’approccio. Nella buona architettura degli interni navali, le misure degli spazi non sono mai riconducibili a un abaco codificato, si configurano invece, solo nel rapporto di reciprocità tra i singoli elementi, creando scenografie diverse a seconda dei volumi che abbiamo a disposizione.
Quindi, su barche più piccole?
Con il team del cantiere Solaris, per cui ho lavorato su barche da 47 a 72’, abbiamo aumentato la qualità percepita esaltando i volumi e ricoprendo gli interni con rivestimenti nobili, quasi a nascondere la muscolatura dei materiali. Una scelta strategica precisa, per rendere più accoglienti gli ambienti, creando una barca tecnologica dove, legno, vetro, acciaio, pelle, tessuti ecc dialogano tra loro in una scenografia fatta di luci artificiali e grandi aperture verso l’esterno. Sono nati così spazi calibrati ed ergonomici, che danno una visione nuova. Devo ringraziare la Solaris e tutto il suo team, mi hanno insegnato a stare sul tema nautico creando barche diverse con contenuti differenti.
E quando si passa a dimensioni più generose?
Qui aumentano i problemi strutturali, le leggi fisiche si impongono e la tecnologia emerge in tutta la sua potenza, allora con certi vincoli devi conviverci. In Baltic, per esempio, c’è il culto della leggerezza unito a quello della robustezza. Il carbonio pre-preg, il Nomex e il titanio, per esempio, sono i materiali utilizzati sul 142: anche loro devono trovare il loro spazio nell’insieme. Io, che vengo dall’automotive, trovo ambienti con dimensioni generose carichi di tecnologia. Che devono ricalibrarsi e rileggere il valori di accoglienza e l’uso dei materiali. I divani iniziano a galleggiare, i mobili possono staccarsi l’uno dall’altro e le strutture le leggi, sono evidenti. È così che nascono scenografie più esaltanti. Per ottenere un risultato armonico, però, bisogna tenere conto delle dimensioni che stiamo trattando. Non puoi creare scenografie sensate senza alzare gli occhi verso il cielo, senza leggere i sedici piani di vela nera che inclinano e spingono la barca. Devi ricalibrare tutto, sono strutture, quelle in ballo su queste dimensioni, nelle quali è meraviglioso perdersi …
Ci racconti in due parole il Baltic 142.
Prima va spiegato l’ambiente in cui il 142 deve nascere. Mi ha ricordato la dedizione dei frati amanuensi del XIII secolo, impegnati però a lavorare con i materiali e le tecnologie più all’avanguardia. Ho letto e interpretato il progetto del 142 per sottolineare i contenuti tipici della filosofia Baltic. Un design pulito che nasconde una tecnologia e una qualità altissima. Quando sono partito con il progetto, ho iniziato in modo astratto a lavorare, per far sì che lo spazio fosse in grado di leggere e armonizzarsi con il vivere quotidiano. Una visione quasi magica che però, pur nella sua ancora immaginaria appartenenza, aveva qualcosa di vero. Volevo uno spazio nuovo, dove il fattore mare emergesse in tutta la sua purezza. Solo una nota. Progettare per la Baltic Yachts è diverso… forse non è un semplice cantiere, è una scuola di pensiero, una fede, un modo di essere.
Qual è stata la difficoltà più grande che ha incontrato in un progetto come il Baltic 142?
La più grande difficoltà è stata quella di adattare l’idea che avevo in mente senza dover intervenire sulle linee d’acqua e sul piano velico. Una barca deve essere disegnata soprattutto per navigare, è necessario che gli interni si adattino alle forme della carena e non viceversa. Ho sempre pensato che la riuscita del progetto sia in un team affiatato.
Lei arriva dal mondo dell’automotive: che cosa può essere portato nella nautica da un punto i vista progettuale e costruttivo, partendo dal presupposto che i numeri sono per forza di cose molto diversi?
La prima fase della mia carriera professionale si è basata sul design, lavorando nel mondo delle auto. Con il tempo ho trovato molte similitudini con il settore nautico. Per esempio, in passato i carrozzieri erano guidati dal cliente; erano proprio clienti -i vari piloti o i gentleman driver- che chiedevano di sviluppare certi progetti. Questa ancora oggi è una costante, nella nautica. Quindi in questo caso è non un pilota, bensì un appassionato di mare che già possiede una barca e che ci ha chiesto di fare un lavoro di pura progettazione.
Che riferimenti ha il cliente che arriva da lei?
Siamo nel decennio che noi chiamiamo “iconico”. Il cliente che viene da noi ha in mente modelli precisi, bene impressi nel suo immaginario, condiviso con la sua collettività. Nella nautica e nell’automotive la filosofia è la stessa: facciamo dei pezzi molto solidi, con pochi tagli. Le auto di serie, per esempio, presentano spesso linee interrotte; Una tendenza dettata soprattutto da un risparmio di costi. In questo modo, infatti, quando industrializzi un prodotto crei tanti piccoli pezzi che sono facilmente riparabili e sostituibili. Nelle barche è diverso, la “carrozzeria” è quasi un pezzo unico, molto solida, scultorea. Questo è il tipo di approccio che abbiamo: cerchiamo di eliminare i tanti pezzi e farne pochi, quasi uno unico, in modo da far correre maggiormente la linea sulla superficie.
Quindi è dal mondo delle auto che è arrivata la coperta “alla Micheletti”, con aperture che riprendono concetti automobilistici?
Si cerca di lavorare su un disegno nuovo, ma che sia un “evergreen”. Non un disegno di tendenza che funzioni quest’anno o per cinque anni e poi basta, ma delle linee che possano soddisfare l’occhio per molto tempo. La coperta di una barca deve durare a lungo e quindi deve piacerti per molti anni, il design deve essere coerente con se stesso.
Ci sono prodotti come il Vismara-Mills 56 che rimarranno pezzi unici. Ci saranno altre barche che riprendono questi concetti?
Mi piace coinvolgere i miei armatori nella discussione delle linee, ma poi non è direttamente il cliente a decidere, ma il mercato, la tendenza. Come diceva Enzo Ferrari: “Guardarsi intorno e capire come si muove il mercato, il design”.
Che differenza c’è tra disegnare un’auto e disegnare una barca?
Disegnare barche è più complesso, in quanto nelle barche l’armatore entra a far parte dell’estetica e della linea del mezzo, cosa che nelle quattro ruote non succede più. Inoltre, per le barche, non solo bisogna disegnare un oggetto che sia bello da fermo, un oggetto da banchina, ma che sia bello anche in mare, che coinvolga il cliente in tutti i sensi. Anche perché ci deve abitare dentro.
Perché ha questa visione di design così “controcorrente” per le barche?
Le linee delle barche, a partire dagli Anni 2000, hanno iniziato a diventare sempre più allungate e spigolose. Io ho voluto fare l’opposto e dare una proporzione diversa. Ho voluto che le aperture fossero non un punto di luce per l’interno, ma avessero un linguaggio da finestra, quasi come se tu potessi timonare la barca da dentro. Lo scopo è integrare la tuga con la coperta per renderla una cosa unica. Avere un’unica superficie più grande mi permette di poter giocare con le linee, per dare dinamicità alle forme.
Parlava di luce, elemento ricorrente nelle sue barche. Quanto è importante per lei?
La luce è il punto centrale. Mi piaceva l’idea di raccontare il mare legandolo allo spazio in cui ci si trova e valorizzandolo con il design e con le aperture verso l’esterno, creando scenografie e riaccendendo un continuo rapporto con il mare, la luce e il vento. Uno spazio che un certo qual modo potesse raccontare l’anima dei luoghi. Ogni prodotto, o spazio, possiede una propria qualità e, di conseguenza, cerchiamo una soluzione specifica per un certo momento, esaltata con riflessi e giochi di luce. Il progetto illuminotecnico diventa fondamentale per creare zone d’ombra e colpi di luce: ho sempre pensato che non c’è luce senza ombra. Luce, materiale, colore dialogano in modo innovativo tra di loro.
E con la luce esterna come si comporta?
È la parte più interessante. Va gestita perché ti regala i colori del tempo. Il “tempo” diventa l’attore principale di una scenografia semplice, pulita, ma nel contempo carica di contenuti. Non il tempo astratto, ma quello che rappresenta questo momento di grande trasformazione, il nostro tempo, quello che dobbiamo gestire ogni giorno. Come diceva Marcell Proust “il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico; le passioni che proviamo lo dilatano, quelle che ispiriamo lo restringono, e l’abitudine lo riempie.” La luce in barca è tutto.
Normalmente ha carta bianca per quanto riguarda il progetto?
I miei armatori sono fantastici, di solito non impongono nessun paletto al lavoro, si apre un dialogo e si traccia un percorso funzionale che poi diventa la nostra guida. Mi piace questo approccio e sono sempre pronto lavorare con loro per capire quale è la loro filosofia di vita, il loro lifestyle. Questo mi ha sempre permesso di realizzare una barca cucita su misura .
Una volta iniziato il lavoro il cliente segue lo sviluppo della barca?
Come architetto, in questi anni ho maturato un metodo di lavoro inusuale, con i miei clienti. Ascolto i loro sogni e i loro desideri poi presento il progetto a mano, quasi fosse un brief schizzato. Sono bozzetti in bianco e nero dove si leggono spazi e volumi. E piano piano prendono forma si colorano e si arricchiscono di dettagli. Si parla di luci, di vento, di come si dovrebbe vivere e si arriva così fino al render con i disegni tecnici. Poi, si arriva a un punto fermo una volta iniziato il progetto, quando il cliente è soddisfatto e riconosce la barca come sua. Da qui in poi posso completare tutto in autonomia con il cantiere.
C’è qualcosa che ha cominciato a fare da quando progetta barche e che sarebbe utile anche nel mondo delle automobili?
La passione è una cosa da traslare, il mondo nautico è carico di passione e amore verso il mare.
Che cosa ha appreso e che cosa ha portato di nuovo nel design nautico?
Questa è una bella domanda, dovrò stare attento alla risposta. Ho sempre creduto nei progetti che abbiano un contenuto. Il design è un continuo progredire, una evoluzione costante, indipendentemente se questo avviene proponendo il nuovo radicale o reinterpretando il vecchio. Sono convinto che oggi sia corretto avere l’idea di design in continua evoluzione. Il design si modella intorno alle sue necessità, e ogni progetto ha requisiti e caratteristiche diverse e trova espressione in contesti differenti. Dobbiamo quindi capire la natura del prodotto e poi svilupparlo in relazione al suo contesto andando oltre alla estetica. Amo la barca e mi piace viverla, progettarla internamente, per cercare di renderla unica.
Lavorare e progettare con un team nautico vuol dire comprendere ed essere consapevoli che è una manifattura che produce “macchine per navigare il mare”, attraverso l’arte dell’alta ingegneria navale. Il “mare” quindi diventa il nostro attore principale di una scenografia semplice, pulita ma nel contempo carica di contenuti. Non il mare astratto, ma quello che rappresenta il viverci sopra, il nostro mare, quello che dobbiamo gestire ogni giorno. L’interpretazione del mare è l’obiettivo finale di un percorso innovativo, coerente, sviluppato con attenzione e consapevolezza, dove tutti gli elementi sono connessi tra di loro. Lo spazio, i volumi, le vele, le sedute, i materiali, le luci, gli oggetti devono lavorare in questo senso, interpretandolo e rileggendolo secondo un immagine nuova più contemporanea. Quando sei in barca e ci vivi dentro, devi ascoltare il suo messaggio e abbandonarti alla sua voce, questo significa abbandonarsi alla voce più segreta e folle che è in te.
Il suo prossimo obiettivo?
Parlare di obiettivi forse non è corretto. Cerco di essere diretto, lineare e trasparente. Mi piace descrivere il mio percorso come il desiderio di dare ai progetti una seconda anima, un’ombra. Vorrei che ogni oggetto avesse la sua “ombra” dove non c’è mai un vero inizio mai una vera fine. Forse l’architettura navale non dovrebbe inventare, ma trasformare, organizzare i mutamenti di quello che c’è già, di ciò che ci precede. Mi piacerebbe che il cliente fosse parte nell’interpretazione dell’intero progetto e che lo leggesse come un viaggio con le sue passioni e i suoi enigmi. Mi piace che chi va sulle mie barche abbia la stessa sensazione che ho io al termine di una vacanza: quando arrivo a casa, voglio tornare dove tutto è incominciato: in acqua.