Massimo Picco, gli armatori non ci sono più e charter e cantieri nautici hanno distrutto lo yacht design

Massimo Picco non ha ancora 44 anni, ma disegna yacht da quasi un quarto di secolo. Lo studio Picco Yacht Design (PYD), da lui fondato nella sua Verona nel 1994, ha progettato e progetta barche a vela e motore da 20 a 120’, ma non disdegna uscire fuori dal seminato.

Come, per esempio, quando progetta delle ville, comprese quelle con la barca dentro, oppure quando disegna elementi di arredo come cucine o maniglie. Controcorrente, intransigente e appassionato, Picco è amante di tutto ciò che tende all’estremo e al non banale. Nelle barche, ma anche nelle auto, un’altra delle sue grandi passioni, che lo hanno di recente portato a collaborare con il reparto auto d’epoca, di un prestigioso marchio dell’automobilismo sportivo italiano. La produzione PYD è compatta nei numeri, ma molto caratterizzata per aspetto e risultati. Oggi, dopo qualche anno dedicato più all’automotive che alle barche, è tornato in modo più continuo a occuparsi di diporto. E mentre sta per lanciare sul mercato una nuova intera serie di open a motore che presenteremo nelle prossime settimane, gli abbiamo chiesto di raccontarci la Picco visione su a che punto è il mondo della nautica.

Ritratto di Massimo Picco.

Tu che hai attraversato professionalmente gli ultimi cinque lustri, tra le innovazioni tecnologiche e di design, che cosa ha modificato di più l’andare in barca in questo periodo?

Più che l’attrezzatura di coperta, che di sicuro ha influito, da un punto di vista generale si è ripensata proprio la coperta. Per esempio si è definito il pozzetto. Una volta le barche non lo avevano, era giusto un buco per il timoniere e poco più: oggi è tutta la barca. Dalla parte opposta, invece, mi ha colpito molto quanto in questi anni si è fatto in senso inverso, per frenare lo sviluppo, mischiando design moderno e tecnologie non adeguate.

Il pozzetto del PYD 60.

Puoi fare qualche esempio?
Oggi in vendita ci sono barche che hanno forme come i prototipi più avanzati, però, costruttivamente, sono realizzate alla vecchia maniera, con materiali poco evoluti, resine pesanti, o laminate in infusione che, per quanto se ne dica, non è così light come sistema. Stesso discorso per il piano velico. Gli alberi in carbonio hanno dato un grande potenziale alle barche, sono rigidi e leggeri, a vantaggio delle prestazioni, ma dopo un primo momento di boom oggi stiamo tornando a non usarli.

Il monotipo PYD 28 in navigazione.

Vale anche se si parla di barche di serie?
Certo, molte barche di serie potrebbero essere armate con alberi in carbonio. Alla fine, un albero in alluminio completo, e ben fatto, per un 40’ costa circa 25mila euro. Un profilo in carbonio economico ma di buona qualità costa solo seimila euro in più. Le crocette possono rimanere di alluminio e il sartiame in tondino, non c’è bisogno di andare su fibre esotiche, ma i vantaggi per la barca sarebbero molti, a partire dalla significativa riduzione di peso.

 

Rendering del Sailconcept, un daysailer ispirato alle linee e allo stile di navigazione di inizio 900, ma attualizzato nelle geometri, nei materiali e nell’uso.

Insomma, bocci il mercato attuale?
Oggi molte barche sono stupide: non si muovono con poca aria e con vento si rompono. Si persegue l’apparenza e non la qualità. Si uniscono cose perché sono fiche da vedere insieme anche se non funzionano: come se mettessimo un piano velico con randa square top e un fiocco senza sovrapposizione su uno scafo classico. Si fanno barche che sembrano veloci, ma non lo sono. Con le poppe larghe come un Imoca 60 e che poi hanno in sala macchine motori da 55 hp, invece che da 90: non sfruttano quelle forme perché non c’è la giusta potenza per spingerle, si hanno consumi maggiori e poca sicurezza con mare formato. Se una barca dalle forme che vanno di moda oggi, la costruisci -o la riempi di cose- rendendola più pesante di quanto dovrebbe essere nella testa del progettista, hai una barca che è lenta per forza perché naviga con geometrie sbagliate.

Maxone, il primo progetto di Massimo Picco, sceso in acqua nel 1994. Si nota la randa square top e il fiocco olimpico.

E i piani velici sono adeguati?
Bah, anche qui ci sarebbe da fare. Che senso ha installare 40 centimetri di bompresso per murare un gennaker, quando potresti montare direttamente sul musone di prua il frullino di un Code 0 che ti garantisce le stesse prestazioni con la metà delle manovre per armare e disarmare?
Insomma un momentaccio…
Più che “accio”, lo definirei ibrido. Ci sono le forme, ma ancora non vogliamo metterci i materiali. Vediamo barche velocissime (come i Volvo o gli Imoca per le regate oceaniche, massima espressione della vela, foil inclusi), ma ci accontentiamo poi di barche che ci assomigliano, ma sono cheap, più nell’idea che nel prezzo. Tralasciando poi la qualità degli interni e della falegnameria…oggi sono tutti mobili Ikea.

Vista da poppa dell’Evo Xs, il piccolo monotipo da 7,5 metri, con canting keel.

Che cosa hai portato nella nautica che prima non c’era?
I fiocchi senza sovrapposizione e le rotaie trasversali: quando ho cominciato a disegnare non c’erano. Poi, certo, c’è chi ha fatto più numeri di me, come Bruce Farr che li ha utilizzati sia sui Mumm 30 sia nei Farr 40 ecc…. magari era il momento. Io mi ero basato sui primi risultati frutto della ricerca computazionale. I software che avevamo in quegli anni dicevano che un fiocco spinge più di un genoa al 150% e così li ho utilizzati e ottimizzati.
Stesso discorso per le prime rande square top. Nel 1994 c’erano il mio Max One e il Radio Azzurra di Umberto Felci con questa configurazione; studiando i dati che emergevano dal computer si vedeva che più la randa in alto twistava più la barca era veloce, questo perché, semplificando, il vettore spinta è diretto verso prua e non lateralmente: più c’è twist e più la direzione della spinta risultante è in avanti.
Successivamente è nato l’albero arretrato, con crocette larghe per maggiore stabilità e leggerezza. Tutti concetti che ora sono quasi un classico.

L’Evo XS visto dal mascone.

E per quanto riguarda gli scafi?
Le barche con le murate a V molto svasate, ma con lo svaso che lavora in acqua, l’esatto opposto delle “scatole da scarpe messe di taglio” che erano gli ultimi progetti Ims. Derive che non erano solo il sostegno per il siluro terminale, ma lo diventavano raccordandocisi; il siluro a T spostato avanti rispetto alla verticale della deriva e con sezione non ovale, ma triangolare, con la faccia bassa leggermente concava (praticamente la stessa forma che si vede oggi negli Imoca 60, ndr).

Chi decide dove va lo stile nautico: clienti, cantieri, progettisti?
Nessuno dei tre. Il mercato lo fa il charter, perché non ci sono più gli armatori. I pochi appassionati rimasti preferiscono noleggiare la barca piuttosto che comprarla; il resto sono solo turisti, alcuni per caso.
Per cui i grandi cantieri i numeri li fanno con le grandi compagnie di charter che ordinano le barche a decine e quindi possono imporre le loro necessità, condizionando progettazione, costruzione e costi.
La vera sfida sarebbe chiedere ai vari progettisti di disegnare una barca per il charter… furba.

Profilo e coperta del Class 40 progettato da Pyd.

Quanto conta la firma di un designer su una barca? In altre parole, sul mercato di massa, per quanto può esserlo la nautica, la gente guarda chi è il progettista?
Purtroppo non più: spesso il nome del progettista ha ingannato il compratore. O meglio sono stati i cantieri a fare la mossa sporca perché hanno chiesto al progettista un disegno, ma poi lo hanno adattato alle necessità industriali, stravolgendo spesso il risultati finale, come si diceva prima.
La firma dovrebbe essere vera e dare dei paletti e delle garanzie, ma non sempre può permetterselo. Per esempio, mentre riconosco il buon lavoro fatto da Humpreys sugli Elan, cosa c’è di Farr su un Bavaria, mi chiedo? Spesso, è solo una firma civetta, appare ma non c’è la testa progettuale dietro, non c’è ricerca tecnologica. Ma non è solo per un discorso di risparmio è che manca proprio l’interesse.

Progetto dello studio PYD per un Class 40.

La barca cui sei più affezionato e se ce n’è qualcuna che disconosci o che comunque oggi non rifaresti.
Mi piace ancora oggi il MaxOne, il 30’ del 1994, è ancora una barca attuale, è stato il mio primo progetto ed è tuttora la mia barca. Dalla parte dei rinnegati non ci metto nessuna barca: ne ho fatte così poche che ognuna è figlia legittima, tutte sorelle e tutte figlie uniche.

È possibile capire oggi se stiamo assistendo al varo di una futura barca d’epoca? Che cos’è che rende una barca un classico, soltanto l’età?
È una combinazione di forme, quella sensazione che hai guardando una cosa che capisci che sarà bella anche tra 20 anni. Ci sono oggetti di design che rimangono sempre attuali, mentre ci sono oggetti “alla moda” che dopo due stagioni sono vecchi. Nel primo caso, se posso, li compro: che siano scarpe, occhiali o automobili.
Da questo punto di vista, possono esserlo anche le nuove barche da regata, come lo erano i J Class quando furono varati: dai VOR 60 delle ultime Whitebread oppure i nuovi VOR 65 dell’attuale Volvo Ocean Race; barche che diventeranno d’epoca sono anche le tre grazie di Luca Brenta e Lorenzo Argento: Wally B, Kenora e Ghost. Purtroppo devo dire che dopo l’iniziale entusiasmo, gli altri Wally mi hanno deluso, se si escludono quelli con la tuga a trapezio disegnati da Frers padre.
Se dovessi dare delle regole, direi che di sicuro un buon indice di bellezza è l’adimensionalità: se di una barca, guardandola fuori contesto, come in un modellino o in fotografia, non riesci a capire che dimensioni può avere è molto probabile tu abbia davanti una bella barca.

Il primo esemplare di PYD 60 varato.

Dove si fa o chi fa ricerca nella nautica?
Di sicuro non nei cantieri, in parte dal progettista e in parte dai fornitori di attrezzature e materiali. Rimangono poi le grandi competizioni tipo la Coppa America o le regate intorno al mondo tipo Vendée o Volvo.
Oggi, però, sempre più spesso il progettista accetta il compromesso imposto dal cantiere e anche lui persegue la logica dei prezzi bassi, che significa anche poco tempo dedicato allo studio di un progetto. Un parallelo di quando sia lontano il mondo della nautica “di massa” da quello dell’auto è evidente in come nascono i modelli di serie, una barca deve essere “buona la prima”, prima di sparare fuori un’auto, invece, sai quanti colpi a salve sono esplosi…sai quante risorse… e, forse forse, vuoi vedere che in fondo, con le risorse a disposizione, i progettisti di barche e infine anche i cantieri non sono poi così male.

Chi ti piace dei tuoi colleghi?
Lo studio Brenta nel suo complesso; lo studio Farr per come ha lavorato sulla funzionalità e sulle prestazioni della barca ed infine German Frers perché ha disegnato belle barche.

Il più grande Evo, un 11 metri disegnato da PYd sempre con canting keel.

Ti ispira, o ti ha ispirato particolarmente, il lavoro di qualche architetto/designer/costruttore del passato?
Dire Fife è sin troppo banale, mi piace molto di più Herreshoff per la genialità di carene e coperte, ai tempi assolutamente controcorrente con forme di scafo magari meno apprezzate ma molto efficaci.

Cosa vorresti lasciare allo yacht design di tipicamente tuo?
Saranno le barche a parlare, quello che ho fatto sta lì, tra la prua e la poppa. Credo di avere un alto “grado del bello”, che significa che non necessariamente disegno barche belle, ma che durante il lavoro, il bello funge sempre da guida e allo stesso tempo da obiettivo.
Alla fine, è difficile avere paternità sui singoli ingredienti, mentre posso essere riconoscibile sul piatto finale.

L’enorme pozzetto dell’Evo disegnato da Pyd.

Cioè, le barche vanno viste come ricette in cui si scelgono degli ingredienti e si assemblano?
Mettere la granita di caffè con panna sulla bistecca non dà pregio né alla carne né al dolce, eppure singolarmente sono cose degnissime entrambe. Perché un progetto sia equilibrato serve che tutti gli ingredienti lo siano tra loro: un piano velico di un certo tipo, una linea di profilo con cavallino accentuato, sezioni di carena svasate ecc. Poi, se volete, alla fine metteteci pure la panna…

Giacomo Giulietti

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  • Un saluto. Ho avuto il piacere di vivere, anche se per poco, il 60 e mi è rimasto dentro .

  • Armo il Picco 38.
    È bellissimo e va come una scheggia.si chiama KEA ITA 14087

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