È più difficile navigare o sbarcare?

Navigare è disciplina. È adeguarsi a nuove regole, a nuove relazioni con gli altri, con l’ambiente e con noi stessi. Ne abbiamo già parlato.
Alcune di queste regole valgono sempre e sono fatte per rendere efficiente la convivenza e la conduzione della barca.

Arrivare a destinazione e lasciare un segno. Il porto di Horta

Le relazioni invece, si costruiscono e si aggiustano di volta in volta per adeguarle a quelle regole.

Non a caso in barca si organizzano anche corsi di team building, anche se solo per un giorno o due, per ricreare la metafora del gioco di squadra, dei ruoli, delle gerarchie, degli spazi costretti.

Ma navigare insieme per giorni o settimane, senza toccare terra, è un’altra cosa.

Più che un team, si crea una famiglia accelerata, una rete di rapporti veri o presunti, basati talvolta su necessità e talvolta su sensazioni, intuizioni o pregiudizi, che dura solo fino al momento in cui si deve sbarcare .

Congedo o fuga?

E poi, arrivati in porto, tutto si sfalda.
Ora mi servirebbe un sociologo: perché non so se sia frutto della cultura italiana che ha bisogno di ritrovare o simulare una famiglia ovunque vada, ma lo vedo soprattutto sulle barche tricolori. Finché la barca va, lasciala andare. Ma appena attraccati, la barca brucia.

Arrrivare in porto significa riordinare la barca e sistemare le emozioni

C’è un indugio, dapprima, come un congedo: le procedure di ormeggio sono infinite, possono durare anche un’ora.
Io me ne tengo sempre fuori: preferisco stare a guardare questo cerimoniale delle trappe e degli spring, che ha sempre i suoi officianti spontanei.

Poi però, appena la barca è assicurata per ogni possibile evenienza, riordinata e lavata, via via via tutti a terra e ognun per sé.

Con equipaggi francesi o britannici ho navigato e li vedo nei porti e nei marina, i giorni successivi. Riparano la barca, sistemano il disordine e poi si fermano lì, bevono chiacchierano e guardano il tramonto.

Cucinano in barca, li saluti e ti guardano curiosi dal loro pozzetto mentre passi davanti a loro almeno cento volte.
Noi sì facciamo le riparazioni che son da fare, laviamo laviamo tutto. Ma di corsa come se non ne potessimo più. Come se la barca fosse in vendita.

Fretta, pigrizia e anarchia

Il Peter Café Sport di Horta, alle Azzorre. Un punto di ritrovo molto richiesto per il gin tonic e il wifi

Prima cosa, arrivati in porto, cerchiamo un wifi, le docce e una lavanderia. E poi il bar.
E iniziano i tempi morti. Tempi lunghissimi in cui a turno ci si aspetta e ci si trova al bar.

Se ci fate caso, nel bar del porto ai Caraibi alle Baleari o in Grecia c’è sempre un tavolo da sei, occupato da uno o due italiani. Stanno aspettando gli altri. Non arrivano mai tutti insieme.
Uno è andato a noleggiare un motorino per visitare il posto. Un altro sta facendo un bucato. Un altro sta già girando in banchina in cerca del prossimo imbarco.

Arrivano pigri, svogliati, come obbligati. Non hanno più voglia di stare insieme.
Quelli che in barca si erano amati si eclissano per una proroga di romanticismo, oppure già si guardano in cagnesco.
Quelli che si erano confidati, sfogati, capiti, ora sono imbarazzati da tanta intimità e si fuggono o tacciono.
Quelli che avevano fatto di tutto per mediare, placare gli animi e conciliare ora si sentono liberi dall’incarico e manderebbero volentieri tutti gli altri a quel paese.

Resistere al trauma

Arrivare in porto. Gli equipaggi si rilassano (Le Marin, Martinica)

« Sbarcare è sempre un trauma », mi ha detto Alessandra. E ha ragione.
Se posso darvi un consiglio, soprattutto se siete in arrivo in posti che non conoscete e se non avete il volo domattina per tornare a casa, per attenuare questo trauma resistete al wifi.

Resistete dal farvi travolgere dalla realtà che avevate lasciato alle spalle, dalle notizie da casa, dai conti aperti, dalle pendenze, dalle abitudini, da quelli a cui siete mancati, da quelli a cui non avevate pensato e ora vi sentite in colpa, da quelli con cui vi sentirete subito in debito.

Perderete immediatamente la nuova dimensione che avevate faticosamente conquistato.

Evitate se possibile di creare gruppi whatsapp dell’equipaggio. E se lo fate, usatelo solo per scambiarvi le foto e poi chiudetelo subito dopo qualche giorno.
Io ho ancora gente che dopo anni mi manda auguri e mi chiede dove sono e come va. E non so chi siano.

Fate come me: guardateli strano quelli che vi dicono sentiamoci vediamoci eh restiamo in contatto organizziamo una rimpatriata. Perché se anche loro non lo sanno, voi lo sapete che la rimpatriata non ci sarà e se ci sarà suonerà falsa, ipocrita come i brindisi e le promesse stasera al bar del porto.

Non sentitevi obbligati ad augurare ogni bene a chi vi ha rovinato la vacanza. Ci penserà da solo a fare da sé la propria felicità, magari a rovinare la crociera a qualcun altro. Non siete obbligati a perdonare. Non siete obbligati a fare pace, dato che – se sarete fortunati o accorti – non vi vedrete mai più.

E non preoccupatevi, non abbiate ansia: i semi delle vere amicizie germineranno. Si faranno sentire da sé, senza bisogno di sollecitarle. Non preoccupatevi vi dico, ci si incontrerà di nuovo, prima o poi. Il mare è piccolo.

Isolaria Pacifico

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  • Per fortuna non sempre è così, si sia tra italiani o "esteri". Mi sembra un post troppo amaro.

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