Vi ricorderete dell’uomo che fu trovato l’anno scorso su un isolotto del Pacifico orientale, magrissimo, barba e capelli lunghi e arruffati, diceva di essere stato in mare per oltre un anno, alla deriva, dopo essere stato colto da una tempesta fuori dalle coste del Messico. Assomigliava al personaggio interpretato da Tom Hanks in Cast Away, gli assomigliava forse troppo perchè la gente gli credesse. Chi riesce a sopravvivere per oltre 400 giorni alla deriva su una barca di 8 metri nell’oceano Pacifico?
E a tre anni di distanza dal giorno in cui partì per una battuta di pesca in Messico con un giovane compagno, nel novembre del 2012, esce finalmente un lungo racconto della sua storia, ricostruita da un giornalista del Guardian che è riuscito a passare molto tempo con Alvarenga, a casa sua in Salvador, e a farsi raccontare tutto. È una storia pazzesca, davvero difficile da immaginare per chi abbia passato anche solo qualche giorno in mare aperto.
Il 18 novembre del 2012 il pescatore Salvador Alvarenga e il suo giovane collega Ezequiel Córdoba vengono colti da una burrasca a una cinquantina di miglia dalla costa del Messico mentre sono impegnati in una battuta di pesca. Alvarenga è un pescatore esperto e un uomo di mare, sa quello che deve fare: impedisce alla piccola barca (25 piedi) di intraversarsi alle onde, pompa via quanta più acqua è possibile e si dirige verso terra. La barca è piccola sì, ma equipaggiata a dovere per le uscite: gasolio, acqua, un telefono, un GPS, una radio, chiavi inglesi e attrezzi. Ma non doveva essere sufficiente. Quando ormai sono in vista di terra, Salvador e Ezequiel telefonano per farsi venire a prendere, ma il motore comincia a sbuffare e si spegne, il GPS non funziona più, la radio si scarica. E la burrasca continua: li spinge al largo, invisibili a qualsiasi tentativo di ricerca.
Cominciano i 438 giorni di deriva nel Pacifico. La conoscenza del mare è l’unica cosa che è rimasta ai due naufraghi, visto che tutta l’attrezzatura è andata, scaraventata fuoribordo per la rabbia. Si riparano dal sole sotto il contenitore del ghiaccio, non bevono mai acqua di mare, mangiano tartarughe ogni volta che possono per fare il pieno delle vitamine del loro sangue, raccolgono i contenitori di plastica che galleggiano per riempirli di acqua dolce ogni volta che piove.
La battaglia vera, però, è con la debolezza, con la solitudine, con lo sconforto, che fanno sembrare più facile mettere fine a una così grande sofferenza piuttosto che lottare. Pensieri inevitabili, soprattutto quando, dopo due mesi, Ezequiel muore e Alvarenga resta solo. Racconta di averci messo giorni ad ammettere la morte del proprio compagno. Racconta che per giorni gli ha parlato, chiedendogli “come hai dormito?” o “come stai?”, prima di riuscire ad ammettere che stava parlando a un cadavere. Riuscite a immaginarvelo? E riuscite a immaginare cosa ha voluto dire per quest’uomo, al suo ritorno a casa, vedere centinaia di persone tutte insieme che gli parlavano solo per scattare una foto? Cosa avrà pensato quando ha capito che la gente sospettava che lui una storia del genere se la stesse inventando?
Dopo la morte del suo compagno di sventura, Alvarenga racconta di aver creato una realtà parallela per riuscire a sopravvivere – che poi, fatte le dovute proporzioni, è quello che facciamo tutti… La mattina immaginava di passeggiare in un prato, di parlare con i propri familiari, evitando in ogni modo di pensare alla morte. Durante una delle sue “passeggiate mattutine” vide il cielo riempirsi di uccelli di terra: non ci potevano essere dubbi che ci fosse un’isola vicino.
Al suo ritorno a casa Alvarenga ha sofferto di uno stato di shock per molto tempo: un’ovvia paura dell’acqua e di restare solo, il bisogno di dormire con la luce accesa. Ci ha messo un anno a realizzare quanto è straodinario quello che è riuscito a fare sopravvivendo ad ogni costo.
Le foto sono tratte dal bell’articolo di Jonathan Franklin, pubblicato su The Guardian. Il giornalista ha scritto un libro sull’avventura di Salvador Alvarenga, “438 days”.
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