Zattera di salvataggio: 20 ore a bordo
La zattera di salvataggio è uno strumento indispensabile a bordo, per quanto la speranza sia non doverla utilizzare mai. Ma com’è la vita al suo interno? Come sfruttare al meglio le dotazioni di base offerte dalle case produttrici? Può cavarsela anche una persona che non l’ha mai provata? Per rispondere a queste e altre domande, ma soprattutto per verificare il funzionamento del prodotto, la redazione di Tuttobarche ha organizzato al Marina di Varazze un test di permanenza a bordo di una zattera di salvataggio, fornita da Arimar. L’equipaggio era composto dal sottoscritto e da Alberto Giachello.
L’obiettivo dell’evento, puramente dimostrativo, era in primo luogo quello di sensibilizzare gli armatori alla conoscenza delle dotazioni di sicurezza di bordo, questo il motivo della scelta della location che ha permesso agli armatori presenti e a quelli che hanno visto l’evento in diretta sulla pagina Facebook di Tuttobarche, di assistere comodamente al test.
In secondo luogo c’era l’esigenza di sperimentare in prima persona non soltanto l’efficienza della zattera di salvataggio, ma sopratutto la qualità della vita a bordo, in attesa dei soccorsi. Pur con i vantaggi derivati dall’effettuare il test in porto, abbiamo voluto verificare cosa significa resistere fisicamente e mentalmente al freddo, all’umidità e alla scomodità.
La zattera
Per il nostro test abbiamo utilizzato il modello Arimar Oceanus PG con Grab Bag, progettata per imbarcazioni che battono bandiera italiana e che navigano oltre le 12 miglia dalla costa. La scelta di utilizzare questa versione nasce dalla consapevolezza che una “grab bag” riduce di molto il peso e le dimensioni della zattera, facilitandone quindi il lancio ed il posizionamento a bordo delle imbarcazioni. La zattera su cui siamo saliti è omologata per otto persone ed è dotata di una tenda, quattro tasche stabilizzatrici e un fondo a isolamento termico. Un piccolo impianto elettrico collega la lucina interna per la notte a quella esterna, che si illumina a intermittenza per segnalare la propria presenza agli altri natanti.
All’interno della zattera di salvataggio sono presenti le dotazioni fondamentali per sopravvivere ed essere individuati dai soccorritori: un’ancora galleggiante con cima da 30 metri, un anello galleggiante da lanciare alla barca dei soccorsi (con tanto di cima galleggiante), due pagaie ed un coltello conforme agli standard di sicurezza.
Con la zattera è compreso un pacco di dotazioni fisse: la sassola e due spugne per sgottare, un kit di riparazione, una pompa manuale per gonfiare i tubolari e un manuale interno per ricevere istruzioni su tutte le operazioni da compiere. Per segnalare la propria presenza ai soccorsi, sono presenti 3 fuochi a mano luce rossa e un razzo paracadute.
Il kit in dotazione prevede una razione di mezzo litro d’acqua e 10.000 kJ di viveri (circa 2500 kCal) per ogni persona a bordo. I naufraghi meno avvezzi al mare possono trovare conforto nei dodici sacchetti e sei pillole per il mal di mare. Completano il kit l’eliografo e la torcia stagna con batterie e luce di rispetto.
La Grab Bag, ovviamente impermeabile, contiene inoltre altre razioni di cibo e acqua, un altro razzo paracadute, due fumogeni galleggianti, un fuoco a mano, un kit da pesca, la cassetta del pronto soccorso e due coperte termiche.
La prova
Una calda giornata primaverile, con qualche nuvola e poco vento, ha fatto da cornice all’inizio del test. Sabato 28 aprile alle ore 16, dal gommone che ci faceva da barca-appoggio, abbiamo lanciato la borsa contenente la zattera di salvataggio in mare, nella zona antistante la banchina centrale del Marina di Varazze.
Tirando la sagola collegata alla borsa, la bombola ha attivato il processo di gonfiaggio istantaneo ma, per nostra sfortuna, l’impatto con la superficie dell’acqua ha capovolto lo zaino con la zattera, che si è aperta al contrario rispetto alla condizione ottimale. In questo modo la Oceanus PG è comunque utilizzabile, anche se non è coperta dalla tenda, ma ovviamente lascia più esposti alle intemperie i naufraghi.
Abbiamo quindi dovuto eseguire la procedura prevista in questi casi, afferrando la scaletta interna e tirandola verso di noi (facendo leva con il nostro peso) per capovolgerla.
A questo punto era davvero tutto pronto per il nostro test: un respiro profondo, un balzo dal gommone e via, verso la nostra giornata da naufraghi.
La nostra prima “missione” è avvicinarci al pontile utilizzando le pagaie in dotazione. La dimensione ridotta degli strumenti, progettati più per occupare poco spazio che per muovere il natante, così come la presenza di una sola apertura laterale, rendono l’operazione piuttosto complicata. Il risultato è che all’inizio ci muoviamo soltanto verso dritta. Poi, trovando una maggior coordinazione, ci spostiamo di qualche metro verso il pontile, mentre io pagaio in avanti e Alberto alterna pagaiate nella stessa direzione ad altre per aggiustare la rotta.
Concludiamo con l’aiuto del gommone, che prima di avvicinarci al pontile ha effettuato qualche giro intorno a noi per simulare il moto ondoso. La zattera è perfettamente equilibrata e noi al suo interno possiamo sporgerci oltre il bordo per pagaiare senza nessun rischio di essere sbalzati in acqua.
Una volta stabilizzati, seguiamo le operazioni indicate dal manuale per chiudere i tappi delle due valvole di sovrapressione. Siamo anche aiutati da Matteo Cantagalli, il responsabile di Arimar che ci assiste nel test.
Nel nostro caso, trattandosi di un “naufragio” di venti ore, l’operazione è superflua, ma testiamo la procedura standard ipotizzata per una permanenza superiore.
Essendo in un marina, restituiamo l’ancora galleggiante in dotazione, che insieme alle tasche sul fondo della zattera garantisce maggiore stabilità. Infine completiamo il nostro ormeggio utilizzando l’anello di salvataggio e la relativa cima, con i quali diamo volta al pontile.
Terminata quest’operazione, constatiamo due spiacevoli sorprese: a bordo è entrata una discreta quantità d’acqua, in parte a causa del capovolgimento iniziale e in parte per le nostre concitate pagaiate, ed il telo fissato sul pavimento della zattera si è sganciato dalle cime ai quattro angoli, cui era fissato.
La prima operazione è quindi rimuovere l’acqua da bordo. Con il coltello legato alla scaletta della zattera, apriamo la sacca impermeabile contenente le dotazioni. Prendiamo quindi le due spugne e le imbeviamo con l’acqua sul fondo, poi riempiamo la sassola e la svuotiamo in mare. Grazie a queste operazioni riusciamo ad asciugare il fondo della zattera.
Con il senno di poi, ci accorgiamo che sarebbe stato più utile svuotare la zattera sedendoci sui tubolari e raccogliendo l’acqua raccolta ai nostri piedi, che creavano il dislivello nella superficie. Probabilmente ci saremmo comunque bagnati, ma non così tanto. Resta il fatto che i nostri vestiti sono fradici, sia per le recenti operazioni di pulizia sia per la pagaiata verso il pontile.
Risolviamo temporaneamente il problema del telo bucandolo con il coltello nei pressi delle estremità, per poi fissarlo di nuovo con le cime ai quattro angoli della zattera. Non durerà a lungo, ma come soluzione temporanea basta.
Dopo aver esplorato il mare intorno a noi dall’oblò, progettato per avvistare le barche di salvataggio, ci preoccupiamo di far asciugare (per quanto possibile) i vestiti. Rimaniamo quindi a petto nudo e sistemiamo l’abbigliamento al sole, legandolo alle cime intorno all’apertura o stendendolo sopra la tenda, facendo molta attenzione a tenerlo bene in mezzo e controllando che non venga portato via da eventuali raffiche di vento.
La zattera al suo interno è comoda e nel tardo pomeriggio la temperatura è perfetta. Controlliamo tutto il materiale a nostra disposizione e ci prepariamo alla sera, quando dovremo mangiare. Essendo posizionati in porto non subiamo il moto ondoso e possiamo rilassarci sulla zattera; appoggiando la testa sul tubolare si sta anche bene sdraiati.
Il tempo è passato velocemente e si avvicina l’ora del tramonto. Ci prepariamo quindi per la notte e intanto prendiamo le segnalazioni di emergenza. Ovviamente in porto non possiamo sparare il razzo paracadute né le boette fumogene, ma proviamo i tre fuochi a mano presenti nella dotazione standard. Funzionano tutti bene e trovo lungimirante la decisione di inserire le istruzioni su ognuno di essi, per evitare che qualche naufrago poco esperto possa ustionarsi.
È ora di cenare e apriamo la Grab Bag con il kit alimentare di sopravvivenza. Il nostro pasto è a base di barretta proteica, che al sapore è una sorta di impasto di biscotti concentrato. Non è come mangiare da Cracco, ma quando c’è in gioco la fame, ogni barretta ci sembra un cheeseburger. Letteralmente, perché in termini di kCal hanno lo stesso apporto per il nostro organismo.
Consumata la cena, ci dedichiamo ad un brindisi che consumiamo aprendo le buste d’acqua in dotazione. Ogni sacchetto, che corrisponde alla razione giornaliera per una persona, ne contiene cinque da 125 mL. Assetati dalla giornata, ce ne scoliamo uno a testa in breve tempo e, contro il nostro iniziale scetticismo, constatiamo che il sapore è quello dell’ acqua naturale.
La notte si avvicina e con essa ci prepariamo ad affrontare il nostro più grande nemico: l’umidità. All’interno della zattera, una volta chiusa l’apertura laterale e legato l’oblò con l’apposita cima, non fa affatto freddo e, per quanto i nostri vestiti non siano ancora asciutti, si sta bene.
Ci occupiamo anche, materialmente, del problema che ha maggiormente destato la curiosità degli spettatori. Indicativamente, ogni tre passanti al Marina di Varazze che si fermavano a chiedere cosa ci facessimo su una zattera, uno domandava come espletassimo i nostri bisogni fisiologici (sto parafrasando, l’avrete intuito). Ebbene, la soluzione trovata da me e Alberto sfruttava la fortunata coincidenza che per spegnere i fuochi a mano utilizzati in precedenza ci fosse stato passato un secchio.
Ormeggiati a pochi metri da una banchina frequentata da armatori, non potevamo certo espellere i nostri bisogni direttamente in mare, ci siamo quindi affidati al secchio. L’alternativa a cui avevamo pensato in precedenza era la sassola, più piccola ma comunque utile per questa potenziale funzione.
Calata la notte, troviamo molto utile la lucina in dotazione, con un capo per illuminare l’interno e uno intermittente all’esterno per segnalare la nostra presenza ad altre imbarcazioni. Per il resto l’interno è comodo e sia la Grab Bag sia i tubolari si rivelano buoni cuscini. All’esterno qualche scroscio di pioggia notturna cerca di creare problemi alla nostra zattera, che però resiste benissimo e non lascia passare nemmeno una goccia d’acqua.
Il grosso problema, come anticipato, rimane l’umidità. Alberto ed io ci ripariamo nelle coperte termiche che tengono davvero caldo. Commettiamo il duplice errore di entrarci troppo vestiti, ingannati dalla temperatura esterna e con abiti ancora umidi. Nell’arco di poche ore si forma dunque condensa, sia nella zattera che all’interno della coperta termica: l’umidità è alle stelle.
Il freddo patito nelle due ore prima dell’alba rimane la parte più difficile di un’esperienza indimenticabile e di sicuro positiva. Quando sorge il sole siamo molto stanchi, ma entrambi sappiamo che la parte più impegnativa delle 20 ore è appena terminata. Nemmeno le gocce che cadono dal tettuccio della zattera a causa dell’umidità notturna turbano la nostra serenità mattutina.
Forse con maggiore lucidità avremmo capito che sarebbe bastato passare le spugnette e vuotarle nella sassola. Ma forse eravamo troppo impegnati ad ammirare l’alba nel cielo ligure, che dalla banchina del Marina di Varazze ha salutato l’inizio del nuovo giorno e delle nostre ultime ore da naufraghi.
Con il ritorno del sole, possiamo riaprire oblò e apertura laterale, lasciando entrare la fresca aria mattutina per abbassare il calore, amplificato dalla tenda.
La nostra avventura volge ormai al termine e l’unico pericolo è rappresentato da una improvvisa “pioggia artificiale”che arriva da un idrante in banchina: servirà forse a testare i temporali improvvisi?
Verso le 9 ci accorgiamo che i tubolari della zattera si sono un pochino sgonfiati, probabilmente per il calore. Seguendo le istruzioni del manuale e le indicazioni sulla valvola, utilizziamo la pompetta in dotazione per gonfiare i tubolari. L’operazione è all’inizio complicata, ma dopo qualche minuto di pazienza riesce perfettamente.
Il team di supporto composto dalla redazione di Tuttobarche, dal personale del Marina di Varazze e da Matteo di Arimar, si commuove e ci concede uno strappo alla regola, due brioches e un caffè arrivano inaspettatamente e ci regalano una dolce colazione. Dopo la barretta proteica della sera precedente, un croissant ha il sapore del migliore dei dolci.
Le ultime ore passano veloci, tra due chiacchiere a bordo e le ultime operazioni prima di tornare sulla terraferma.
Quando ci avviciniamo alla banchina e veniamo aiutati nella risalita, prendo consapevolezza del fascino e delle emozioni dell’avventura appena vissuta. Una giornata da “cast away”, a contare le razioni di cibo e a contrastare le difficoltà dovute alle condizioni atmosferiche, ai vestiti bagnati e alla poca esperienza.
La zattera Arimar si è rivelata all’altezza del suo compito, preservandomi dai pericoli maggiori e rendendo la giornata emozionante ma non pericolosa o eccessivamente difficile da affrontare. Sebbene si possa suggerire qualche piccolo miglioramento (degli anelli in acciaio per rinforzare la tenuta del telo, su tutti), Oceanus PG è confortevole e leggera, per quanto il suo compito possa permetterle.
Soprattutto, questo è il pregio che più mi sento di apprezzare essendo la mia prima volta in zattera è “a prova di inesperto”, con manovre semplici da eseguire e spiegazioni dettagliate nel manuale in dotazione o sugli strumenti per i compiti più impegnativi. Ho trovato molte di queste superflue per chi ha esperienza in barca, ma considerando che la zattera è costruita anche per un equipaggio totalmente inesperto, ritengo sia meglio ripetere informazioni che ometterle.
Di questa giornata rimarranno tante sensazioni, difficili da elencare e a volte da esprimere. L’emozione al momento dell’ingresso in zattera, la concitazione delle pagaiate per avvicinarci al pontile, il malinconico oblio del cullare delle onde, la soddisfazione e la sensazione di potercela fare, anche mentalmente, dopo aver superato le difficoltà (decisamente ridotte rispetto a un reale naufragio) della nostra avventura, l’umidità che ti penetra nelle ossa, nelle cellule, nel midollo, la complicità con uno sconosciuto creata da una situazione così insolita, la meraviglia dell’alba dopo una notte insonne, la stanchezza e l’incredulo torpore del ritorno alla vita di tutti i giorni.
Un elenco quasi joyciano di ricordi, sensazioni, impressioni che si sovrappongono e resteranno indelebili.
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